Nel plenilunio
Le ombre giocano
E si divertono
A smarrire i viandanti timorati.
Giunse alla vecchia dimora giusto in tempo per ammirare l’astro rosato scomparire al di là dell’orizzonte. Quando aprì l’anziano portone, lamentoso di ruggine, il tramonto già s’era spento. Oltre l’antica soglia lo attendeva il lugubre silenzio dei secoli dimenticati.
L’odore, che conosceva sin troppo bene, ormai parte di sé, lo colpì alle narici. Quel miscuglio di polvere, muffa e abbandono, così penetrante da togliere il fiato.
L’attesa era il suo lavoro. Un impegno paziente, auscultando voci d’oblio.
Chiuse alle sue spalle la logica dell’esistenza, cancellando dalla propria mente il rumore del mondo, brulicante d’insulsi pensieri fuorvianti.
Si pose da subito in ascolto, nella penombra sempre più percepibile, ma alcun brivido giunse a scuoterlo. Vide la sera farsi notte, e la notte farsi ancora più notte. Impassibile rivide la vita affacciarsi dal cielo, e fu nuovamente il giorno.
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S’era impegnato, grazie all’esperienza maturata, ad attendere sino a tre notti. Tre: numero perfetto per ogni richiesta; numero magico per eccellenza.

Il pomeriggio del secondo giorno passeggiò sotto il cielo settembrino, sfogliando un decrepito volume sazio di magie perdute.
Un gatto, color delle foglie d’autunno, gli rivolse un miagolio. Il lettore salutò il gatto e il misterioso felino fuggì via. La vita sociale non è il suo punto forte, pensò l’uomo. La vita non sa vivere, pensò il gatto, appisolandosi più in là, incurante.
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Il giorno nuovamente si spense, e s’accese la notte, la notte dei sogni lucenti.
Fu quasi la mezzanotte quando il vegliante udì un rintocco rinascere; udì, sorpreso, dal regno della quiete, il suo ridestarsi. L’enorme orologio a pendolo del soggiorno, riccamente intarsiato d’inquietanti figure, riprese a funzionare.

Tempo prima, in un’altra casa, accadde qualcosa di simile. Un pianoforte, nel cuore della notte, prese a suonare una melodia incantata. Era una notte tranquilla e la luce lunare si depositava, come un velo, sulla tastiera e parte dello strumento.
L’attimo di scendere dalla stanza situata al primo piano, con le chiare note ad echeggiare intorno, ed entrare nella sala musicale. Il silenzio e la percezione di una presenza; un chiarore furtivo e per nulla umano; il brivido sulla pelle.
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Perso nel ricordo l’uomo rimase ad osservare, per un paio di minuti, lo strano orologio. Registrò il fenomeno nel trasandato diario che si portava appresso. Un logoro diario fitto di indecifrabili appunti; di vite e morti intrecciate; di ombre e deliri; di sospiri e silenzi; di attese notturne, a tratti sorprese dal nulla.

La notte, accompagnata dall’insistente canto di un gufo, trascorse tranquilla.

Il terzo giorno piovve senza tregua. Il ritmo acquoso, incessante, favorì la riflessione e lo studio di un testo alchemico prelevato dall’immensa libreria.
Il sogno della ricchezza, tramite le vie naturali della conoscenza, impregnava le pagine ingiallite. Così le ore, libere dalla prigionia temporale dell’esistenza, fuggirono via.

Una frugale cena, al lume baluginante di una candela, accompagnò il vegliante, dagli occhi cerchiati e stanchi, nei pressi dell’ultima notte.
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Una casa, sepolta nella campagna e un vivente, d’età discreta, in attesa d’un segno. Quella notte, la morte, lo osservò. Quella notte, la morte, sorrise. Quell’uomo, ingobbito, dall’aspetto stranito, le era simpatico. Quella notte, la morte, gli passò accanto, sfiorandogli il viso roseo di vita. La morte lo vide rabbrividire e sorrise, come solo la morte, quando ritrova un’emozione scordata, è capace di sorridere. La mezzanotte era da poco trascorsa quando un fievole canto, delicato come un petalo di rosa, si fece udire dal vegliante. L’esperienza portò l’uomo a considerare la manifestazione come l’evento più naturale dell’altro mondo. Questo mondo, pensò, mentre attraversava l’ampio salone, è assai più orribile e assurdo.
Passo dopo passo, stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, il canto assumeva, sempre più, l’instabile consistenza della vita.
Il vegliante, infine, si fermò. Innanzi a lui, accanto ad una vetrata, si stagliava una lucente immagine di forma umana. La vita e la morte si incontrarono: l’eternità si mostrò in tutto il suo splendore.
– Chi, o cosa sei? – pronunciò il vegliante; e da ogni luogo, vicino e distante, giunse la risposta. – Io sono e non sono; sono la vita e la morte; sono il finito e l’infinito.
– Da dove vieni? – Giungo dal nulla e dal suo opposto; dal paese dell’ombra e della luce: provengo da te.
– Non ti capisco – disse l’uomo.
– Guarda all’interno del tuo cuore e mi riconoscerai – rispose l’entità.
Il vegliante iniziò a tremare. La voce dell’essere fu un sussurro.
– Ti amo, ricordati di me. Il vegliante impallidì; la figura ondeggiò, per poi gradatamente scomparire.
La presenza eterea lasciò la casa al silenzio e l’unico suono rimase il soffio del vento che accarezzava le foglie degli alberi in giardino.
L’uomo rimase immobile nel buio. Cercò, con calma, il diario. Lo aprì, con un’esagerata cautela, e vi scrisse un nome. Il pensiero del vegliante, a quel punto, si confuse col ricordo di un amore perduto. Una lacrima dispettosa brillò e il diario fu richiuso per sempre. Da anni, ormai, l’attesa era il suo lavoro. Tutto iniziò una primavera ormai lontana. Il dolore della perdita fu troppo forte. Cercò di dimenticare, isolandosi sempre più dal mondo che conosceva. Si avvicinò alla porta dell’ignoto: unico incoraggiamento alla vita: unico sostegno al baratro della solitudine. Casa dopo casa, notte dopo notte, attesa dopo attesa. Cercava un segnale di speranza, indagando l’oscuro mistero della morte. L’assillante ricerca l’aveva condotto a quell’ultima dimora; e proprio lì, forse, aveva avuto una risposta. Si accorse, in quel preciso momento, guardandosi le mani stanche, d’essere precocemente invecchiato. S’era illuso di poter gestire lo scorrere del tempo; e il tempo, adesso, esigeva il proprio tributo. L’uomo raccolse le sue poche cose e uscì dalla casa di primo mattino, allontanandosi lentamente. Si fermò subito dopo, senza voltarsi. Da una tasca della giacca prese in mano una vecchia fotografia e la guardò. Ricordò il viso di lei, in quella primavera malata. Non volle ricordare oltre. Ripose la foto nella tasca, osservò il sole che stava sorgendo e provò a sorridere.
